di Frédéric Musso

©1972 Editions Pierre Charron, Collection Les Geants

IL CREDENTE

Rimbaud si propone come l'unico personaggio-protagonista  della sua opera, l'unico attore di una tragedia. Tragedia classica per  la sua sottomissione alle tre regole del genere: unità di tempo: una breve adolescenza; unità di luogo: lo spazio chiuso di un'anima; unità  d'azione: la lotta con l'angelo. Già alla fine del secolo scorso la leggenda si è impadronita del poeta, e lo ha mitizzato, dando vita a una tradizione rimbodiana che troppe volte ha ostacolato una serena visione critica dell'uomo e del poeta. Questo «passante geniale», come lo ha definito Mallarmé, ha avuto, dopo la morte, un'esistenza problematica: caduto in una rete di commenti malevoli e di appassionate adorazioni, il ribelle della letteratura si è prestato all'esame di interpreti più o meno fanatici che di volta in volta, lo hanno definito "Dio", "santo", "angelo", "demonio", "eremita", "vizioso". Ma Rimbaud non è poi così lontano da noi che non si possa tentare di raccogliere e analizzare, oltre alle ultime testimonianze rese da lui stesso e da chi l'ha conosciuto personalmente, tutto quello che è stato scritto sul suo personaggio umano e artistico, tutto ciò che egli ha ispirato. E da quasi quarant'anni, infatti, il professor Etiemble, il grande "demitizzatore", sta svolgendo un accanito lavoro critico che, dichiarando guerra alla leggenda, cerca di togliere a Rimbaud maschere ed etichette di maniera per scoprirlo nella sua realtà. Come fa notare Etiemble, la vita cristiana di Rimbaud viene collocata nella prima gioventù del poeta e nei suoi ultimi mesi di vita. Che egli abbia ricevuto un'educazione «bien chrétienne», rigidamente cristiana, alla quale si è poi ribellato con violenza, lo sappiamo da Rimbaud stesso: impossibile dimenticare  le sue espressioni di odio per la messa domenicale. Le testimonianze dei parenti, e quella del cognato Parterne Berrichon in particolare, si compiacciono invece di mettere in rilievo il  buon ricordo che i religiosi del collegio di Charleville conservavano del  giovanissimo Arthur. Quanto agli ultimi istanti, c'è una tradizione che accetta sbrigativamente la versione di una morte pia, e che vuol "spacciare" la fine di Rimbaud per il cristiano trapasso di un convertito in extremis. A questo proposito, Etiemble mette in dubbio anche la sincerità di Isabelle Rimbaud, circa l'avvenuta conversione del fratello, e cita testimoni oculari secondo i quali, invece, la morte del poeta non sarebbe stata così edificante come la sorella ha voluto far credere. «Diciamolo francamente: non sapremo mai che cosa accadde realmente nella camera del moribondo. Quello che Rimbaud ha voluto nei suoi ultimi istanti ci resterà ignoto per sempre», conclude Etiemble. Isabelle, che raccolse l’ultimo respiro del fratello e riuscì, dopo molte insistenze, a fargli somministrare i santi sacramenti, presenta ai posteri l'immagine di un Rimbaud salvo per l'eternità. «Quale insondabile saggezza presiede agli umani destini!», scrive infatti la "pia" sorella. «Dopo aver voluto un avvenire materialista per la nuova poesia, dopo aver cercato di strappargli dall'animo ogni idea di serena bellezza cristiana, dopo essersi abbandonato anima e corpo, perdutamente, a quei traviamenti giudicati indispensabili per raggiungere il suo scopo; dopo essersi liberamente sottoposto alle pratiche più dure e ripugnanti, pratiche del resto equivalenti per molti versi all'ascetismo e all'abnegazione dei primi cristiani, l'autore della Lettera del Veggente, divenuto padrone delle visioni, spettatore e giudice dell'infinito, è approdato, al termine di così temibili contatti col mistero, allo spiritualismo più alto, più fatalmente cattolico, alla Stagione all’Inferno». Ma che valore ha questa conversione in extremis? Dopo un mese trascorso nelle Ardenne, nella casa materna di Roche, il malato deve tornare all'ospedale di Marsiglia. Imbottito di morfina, delira: le sue parole, che la sorella definisce "bizzarre", non sono mai state rivelate. «Diceva cose inverosimili che lui immaginava fossero successe all'ospedale durante la notte», si limita a scrivere Isabelle. «Io lo ascolto, cerco di dissuaderlo: egli accusa gli infermieri e perfino le suore di azioni abominevoli e impensabili; gli dico che ha sognato, ma lui non si da per vinto e mi tratta da ingenua e da sciocca». La vita di Rimbaud si spegne mentre la sua mente si perde in allucinazioni, sogni e fantasie: invoca Djami, il suo servo etiope, organizza carovane. «Peraltro, confonde tutto e con arte», scrive ancora Isabelle. Queste sue parole hanno indotto qualcuno a credere che, sul letto di morte, Rimbaud avesse rotto il suo silenzio poetico e che, nel delirio, avesse composto forse le più belle delle sue Illuminazioni. Ma la cosa è assai poco probabile. Rimbaud sta morendo: si aggrappa alla rassicurante presenza della sorella, che aspira soltanto a mettere la sua anima nelle mani di Dio. E sembra proprio che ci riesca, benché il suo racconto presenti qualche punto oscuro. «Domenica mattina, dopo la messa grande, Arthur pareva più calmo e perfettamente in sé. Uno dei cappellani è tornato e gli ha proposto di confessarsi: e lui ha acconsentito! Quando è uscito, il prete mi ha detto, guardandomi con un'espressione turbata e strana: "Vostro fratello ha fede, bambina mia, cosa andavate mai dicendo? Ha fede, e non ho mai visto fede di tale qualità!"... Quando sono tornata vicino al suo letto, Arthur era molto commosso, ma non piangeva: era serenamente triste, come non l'avevo mai veduto. E mi guardava negli occhi come mai mi aveva guardata. Ha voluto che mi avvicinassi e mi ha detto: "Tu sei del mio stesso sangue: dimmi, credi, credi tu?". Ho risposto: "Credo; altri, più sapienti di me, hanno creduto, credono; e poi adesso ne ho la prova!". Ed è vero, oggi ne ho avuto la prova! Lui ha soggiunto, con amarezza: "Sì, sì... dicono di credere, fingono d'essere convertiti, ma solo per far leggere quello che scrivono, è una speculazione!"». Qual è la causa di questa amarezza che svela, stranamente, una natura letteraria? Vi si potrebbe vedere un'allusione a Verlaine. Forse, al ritorno dall'Africa, Rimbaud aveva appreso che, dopo la conversione, il compagno di un tempo aveva maturato una nuova poetica ed era il maestro riconosciuto dalla nascente scuola simbolista. Comunque, quest'idea di «speculazione» non corrisponde troppo allo stato d'animo di un uomo che ha appena ricevuto un sacerdote per riavvicinarsi a Dio. Non sembra quindi credibile che Rimbaud abbia conquistato la serena certezza della fede prima d'intraprendere il "grande viaggio". Troppi sentimenti, troppa speranza terrena lo domineranno fino all'ultimo istante. E benché su quel letto d'ospedale gli aleggiasse intorno un acuto odore d'incenso, egli consumerà le sue ultime forze non immerso nella preghiera, ma dettando una lettera al direttore delle Messaggerie Marittime per organizzare un nuovo viaggio in Africa. Dopo la "conversione" di Rimbaud, la leggenda mette le ali. Nel 1912, Paul Claudel, in una celebre prefazione alle opere del poeta, scriveva: «Arthur Rimbaud fu un mistico allo stato selvaggio, una sorgente perduta che scaturisce da un suolo saturo. La sua vita, un malinteso, il vano tentativo di sfuggire a quella voce che lo chiama, lo perseguita, e che lui non vuoi riconoscere; fino a quando, inchiodato su quel letto d'ospedale, con la gamba amputata, egli saprà!». Per Francis Jammes, Rimbaud è il «re mago che cammina seguendo una stella», e per François Mauriac «l'angelo del grande cammino».
L'edificante soluzione finale di quella vita imponeva di rivalutare interamente l'esistenza del poeta. Isabelle e suo marito, Paterne Berrichon, vi si misero d'impegno, giungendo addirittura a falsificare le lettere scritte da Rimbaud durante il soggiorno ad Harar, affinché il "neo convertito" vi apparisse come un onesto commerciante. Soppressero dai suoi contratti ogni menzione di pelli, caffè e cotone, sostituendo quelle merci con oro e incenso! Anche l'opera di Rimbaud fu riletta in questa luce particolare e tutto ciò che era parso blasfemo divenne una prova di fede: il poeta non si sarebbe tanto accanito contro Dio, se non ne avesse sentita l'autorità morale. Da Harar, Rimbaud scrive: «Per fortuna, questa vita è l'unica che abbiamo, e ciò è più che evidente», ma uno scrittore cattolico come François Mauriac vede in questa dichiarazione addirittura una prova in più della sua fede: «Se mai parola umana significa il contrario di quanto sembra dire, è proprio quell'affermazione rabbiosa». Riccardo Bacchelli gli fa eco. In un suo "omaggio" a Rimbaud, cita l'esclamazione «e Cristo! - fine dell'idillio» e aggiunge: «...che non si sa se sia bestemmia o invocazione, o l'una e l'altra, l'una nell'altra...». Restano ancora le confessioni del poeta: «Vedevo drizzarsi sul mare la croce consolatrice», «Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza», e ancora «Solo l'amore divino elargisce le chiavi della scienza».
Anche gli oppositori della tesi cattolica frugano nell'opera del poeta per trarne un grido di odio e derisione verso la chiesa. E le espressioni sprezzanti nei confronti della religione non mancano certo in Rimbaud: basta leggere I poveri in chiesa, Le prime comunioni, Credo in unam, Il male. Rimbaud cristiano o ateo, dunque? Ancora una volta, il poeta stesso toglie ogni possibilità di soluzione al problema. Infatti, in tutta la sua opera egli si rivolge a Dio e lo accusa di rispondergli solo con quegli infiniti silenzi che atterrivano Pascal. Il ragazzo che scriveva bestemmie sulle panchine dei giardini pubblici di Charleville non trema: decisamente rifiuta, si stacca di dosso con furore il segno del battesimo e sogna un paradiso avanti Cristo, un paganesimo anteriore perfino alle divinità marine. La sua vita sarà tutta una lunga contraddizione ed è vano volerla ridurre all'uno o all'altro termine di questa antitesi.

 

Rimbaud ritratto da P. Berrichon, stile "Coin de table" di Fantin-Latour
Rimbaud ritratto da P. Berrichon, stile "Coin de table" di Fantin-Latour

IL VEGGENTE

Mentre Rimbaud si dedica al commercio in Etiopia, a Parigi la critica lo consacra capo della scuola dei Decadenti, e i giovani estremisti della letteratura vedono in lui il "maestro" dell'avanguardia. Quando egli muore, a Marsiglia, la rivista La Plume lamenta la perdita dell'autore del sonetto Vocali. Gli amanti della poesia hanno un'immagine facile a loro disposizione: dell'opera di Rimbaud viene preso in considerazione solo questo frammento, concepito come difesa ed esaltazione della teoria delle correspondances, delle sinestesie, o percezioni simultanee, già avanzata da Baudelaire e quindi diffusa nel mondo artistico. Il compositore Gounod chiede a una sua allieva, madame Strauss, una «nota lillà», e il poeta Saint-Pol-Roux definisce la poesia come sintesi di arti diverse: «sapore, profumo, suono, luce, forma». Nel 1892, il dottor Jules Millet presenta alla Facoltà di Medicina di Montpellier una tesi sull'Audizione colorata nella quale il sonetto Vocali è riportato per intero. «Verso il 1871, il mondo delle lettere produce un nuovo sonetto che, dapprima incompreso e lasciato in disparte, finirà per diventare, qualche anno dopo in Francia, un poderoso agente di volgarizzazione dell'audizione colorata», afferma Millet. Di colpo, Rimbaud viene consacrato «precursore di idee moderne». Il suo sonetto da persine origine a una setta letteraria, quella degli Évoluto-instrumentistes. In realtà, egli non è affatto un "precursore". Victor Hugo, già prima del 1850, aveva scritto: «Non sembra forse che le vocali esistano per l'occhio quasi quanto per l'orecchio, e che suggeriscano dei colori? Par di vederle: A e I sono vocali bianche, brillanti. O è una vocale rossa. E e EU sono blu. U è la vocale nera». Nel gennaio 1858, il critico e storico danese, Georg Brandes, allora diciassettenne, componeva la poesia Vokalfarverne (I colori delle vocali) nella quale affermava che «il poeta è pittore, ha la penna come pennello» perché la parola «non ha soltanto un suono, ma anche colore e odore». Per Brandes, A è rossa, E bianca, I gialla e U blu. «Amo Rimbaud e mi sono incontrato con lui», dirà un giorno il critico danese a Frédéric Lefèvre, facendogli notare con orgoglio di aver scritto una poesia sui colori delle vocali molti anni prima del poeta francese. Il professor Etiemble precisa però che Vokalfarverne non venne mai pubblicata prima del 1898: era dunque impossibile che Rimbaud l'avesse letta e imitata (a parte il fatto che non conosceva il danese). Vocali o, come viene comunemente chiamato il Sonetto delle Vocali, diventa l'esaltazione della teoria della Veggenza, che Rimbaud aveva esposto nella famosa lettera a Paul Demeny – il poeta «dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni» –  e provoca una valanga di interpretazioni diverse. Lucien Sausy, nel 1933, si avventura in una analisi della poesia basata sulla "trasformazione" di una parola del sesto verso: rois, re, che egli legge rais, raggi. Jacques Gengoux, in La Symbolique de Rimbaud del 1947 e in La pensée poétique de Rimbaud (1950) fa del sonetto il compendio stesso dell'arte rimbodiana. Scritto sotto l'influenza della Histoire de la Magie di Eliphas Levi, il più celebre occultista della seconda metà dell'Ottocento, questo sonetto sarebbe un «vasto sistema simbolico che predispone, sullo schema di una vita umana o cosmica – concepita in cinque categorie – una ripartizione logica e psicologica dei colori, delle vocali, delle consonanti, delle stagioni, dei profumi, delle attitudini, della storia soprattutto». Purtroppo, l'interpretazione di Gengoux, che si propone quale definitivo chiarimento dell'opera di Rimbaud, viene negata dai fatti. La leggenda del giovane poeta che si interessava di occultismo e leggeva assiduamente trattati di magia nella biblioteca di Charleville è stata smentita: la biblioteca non annoverava nel suo catalogo alcun testo del genere. D'altra parte, è molto difficile ammettere che Rimbaud abbia messo, nell'opera come nella vita, un ordine segreto, una dialettica in cinque categorie. Ecco come Gengoux interpreta il simbolismo delle vocali: «A – È l'infanzia ancora indifferenziata, la bestialità, l'immondo. Tutto vi è nero, ristretto, evoca grosse mosche pelose che ronzano intorno a dei fetori intollerabili, a delle carogne. E – È la giovinezza naïve, ingenua, fragile, è l'inverno, la luna, i fiori incantevoli ma inutilizzabili. Tempo della fede pura, caratterizzato dal bianco e dalle mezzetinte tenere. I – Pretende di istituire una rivolta, di estasiarsi per un amore egalitario. Momento della porpora, del rosso, dell'oro, della collera e delle ebbrezze. Ma questa collera, fine di un'aspirazione alla Bellezza (non di uno sforzo cosciente verso la Verità e la Giustizia) non giunge a compimento. Segue il disgusto, che costringe a evadere dalla pigrizia, dalla inazione e dal disordine. U – Categoria della vecchiaia studiosa. Il corso delle stelle non è più oggetto di "poesia soggettiva", ma di studi. I prati non sono più dei pascoli, ma disseminati di animali: sono delle pasture. È l'alchimia, il lavoro, lo sforzo, l'uomo, la ricerca faticosa, ma coronata dalla pace. O – Rappresenta l'estremità dello spettro solare: blu, violetto. La femmina (E, I), espulsa in O, ritorna in U, non più, come in I pari all'uomo o sua dominatrice, ma appoggiata a lui, come completamento. È l'analogo della morte. Risurrezione». Il più recente glossatore di Vocali è Robert Faurisson. Nel 1961, egli pubblica in un numero speciale della rivista Bizarre un saggio intitolato A-t-on lu Rimbaud?, nel quale l'interpretazione si muove nel campo particolare dell'erotismo. Per avvalorare la propria tesi, Faurisson non rifugge dai giochi di parole: Voyelles (Vocali) altro non sarebbe, secondo lui, che Vois-Elles (Vedi-Le, cioè vedi le donne). Il sonetto, insomma, sarebbe un blasone della Donna, della Donna vista dal basso in alto durante l'atto di amore: « A capovolto: sotto l'egida del sesso, il "punto di partenza". E coricato: sotto l'egida dei seni, il progressivo sbocciare. I coricato: sotto l'egida delle labbra, il momento dell'ebbrezza. U capovolto: sotto l'egida della capigliatura, la pausa, il momento di tregua. O capovolto: sotto l'egida degli occhi, l'estasi finale». Questa ricerca di spiegazione a tutti i costi confina con un virtuosismo da esperto in cruciverba. La logica, perseguita a ogni costo, impone le più disinvolte alterazioni della tipografia e del linguaggio del poeta. Robert Faurisson afferma senza ironia che gli studiosi «dovranno cominciare con esami critici letterali e studi di apparenza modesta che non godranno del prestigio dell'interpretazione accademica o visionaria, metafisica o planetaria». Tra le varie interpretazioni critiche del famoso sonetto, c'è una tesi che per la sua semplicità è dispiaciuta a molti studiosi, mentre ad altri è apparsa come la più convincente: il sonetto sarebbe stato semplicemente ispirato dal sillabario colorato sul quale Rimbaud imparò, da bambino, l'alfabeto. Questa ipotesi è stata sostenuta da E. Gaubert, nel 1904, sul "Mercure de France". Trovato un abecedario dell'epoca, egli nota infatti che le lettere vi erano illustrate in questo modo: per A (scritta in nero): Abeille (ape), Araignée (ragno), Astre (astro), Arc-en-ciel (arcobaleno); per E (gialla), Emir (emiro), Étendard (stendardo), Esclave (schiavo), Enclume (incudine); per I (rossa): Indienne (indiana), Injure (ingiuria), Inquisition (inquisizione), Institut (istituto); per O (azzurra): Oliphant (corno d'avorio), Onagre (onagro), Ordonnance (ordinanza), Ours (orso); per U (verde): Ure (ùria, uccello), Uniforme (uniforme), Urne (urna), Uranie (urania); per Y (arancione): Yeux (occhi), Yole (iole), Yeuse (leccio), Yatagan (yatagan, sciabola turca). Quanto all'ordine invertito delle vocali, Tristan Derème spiega semplicemente che, scrivendo U verde e O blu, invece di O blu e U verde, il poeta evitava uno iato. Ma qual era l'intenzione di Rimbaud? Nell'Alchimia del verbo, egli dichiara: «Credevo a tutti gli incantesimi. Inventai il colore delle vocali!... Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante e, con ritmi istintivi, mi lusingai di inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l'altro, a tutti i sensi... Scrivevo i silenzi, le notti, segnavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini». Delahaye riferisce che, un giorno, il poeta gli aveva confidato: «Talvolta ho creduto di vedere, di sentire così...». E Paul Verlaine, interrogato in proposito da Gide, risponde: «Io, che ho conosciuto Rimbaud, so che se ne infischiava che A fosse rossa o verde. La vedeva così e basta».
È deplorevole che, molto spesso, l'"alchimia del verbo" sia stata ridotta a questo esercizio poetico giovanile. Non è nel sonetto delle Vocali che bisogna trovare "il luogo e la formula" di Rimbaud, ma nelle prose delle Illuminazioni. Per noi, il Veggente non è immediatamente visibile.

 

La valigia di Rimbaud (museo di Charleville)
La valigia di Rimbaud (museo di Charleville)

L'AVVENTURIERO

Rimbaud, l'uomo "dalle suole di vento", il "vagabondo", il trafficante d'Abissinia con la cintura piena di monete d'oro, l'infaticabile camminatore che varca le Alpi e attraversa l'Italia a piedi, ha manifestato prestissimo una spiccata vocazione per i viaggi. A questa sua irrefrenabile tendenza alla fuga, sono state date diverse spiegazioni: alle interpretazioni che si rifanno alla psicanalisi se ne contrappongono altre più semplicistiche come, ad esempio, il desiderio di guadagno. Ma la caratteristica più notevole, la costante delle peregrinazioni di Rimbaud è che, eccezion fatta per i soggiorni londinesi, il poeta ha sempre cercato di avvicinarsi allo Oriente, quasi fosse dominato da un fatale tropismo, come quello dei girasoli che si rivolgono sempre verso il sole. Sin dall'inizio dell'Ottocento, l'Oriente esercitava un grande fascino sugli artisti (come Delacroix) e sugli scrittori. Dopo averlo a lungo sognato, Gerard de Nerval finì per recarvisi. Gobineau ne riportò i suoi ricordi di viaggio e le sue Nouvelles asiatiques. E, mentre Rimbaud si arruolava nell'esercito coloniale olandese, Ernest Renan, il "cardinale laico", si inginocchiava davanti al Partenone rinnegando la sua fede di europeo, il suo attaccamento all'ordine gotico. Ma, nell'Oriente, Rimbaud cercava cose ben diverse da quelle che affascinavano questi viaggiatori. E non stupisce il fatto che egli non abbia sentito l'attrazione del mondo greco: questo giovane che ha già la sensibilità del ventesimo secolo, che rinnega il Cristo e sogna antichi paganesimi, non è rimasto conquistato dalla Grecia, né ha tentato, come Nietzsche, di liberare in sé uno spirito dionisiaco.
Qualcuno ha voluto vedere in Rimbaud un capofila degli hippy, le cui strade, com'è noto, portano tutte in Oriente. Pierre Gascar scrive nel suo Rimbaud et la Commune: «C'è da osservare che questo stesso richiamo dell'Oriente si fa sentire in una parte della generazione di oggi e fornisce a quello che si chiama il "movimento hippy" il suo pseudo-spiritualismo... E tuttavia, non bisogna trascurare le ragioni profonde di questa analisi (per dare alla cosa un nome nobile). In questi giovani che mal si adattano, per ragioni diverse e spesso psicopatologiche, alla civiltà cosiddetta del progresso, l'attrattiva del "viaggio" significa non tanto il bisogno di esiliarsi quanto quello di "rimpatriarsi". E proprio in questo il loro comportamento è rimbodiano». Ma Rimbaud, se non ha nulla in comune con de Nerval, Renan e Nietzsche, non è neppure uno di quei romantici disadattati incapaci di vivere nella società, che inseguono il vecchio sogno di Rousseau dello stato di natura e della fratellanza universale. Non vede in questo ideale la speranza di cambiare la sua vita, proprio come non l'ha mai vista nell'hashish. La sua fuga verso l'Oriente è un cammino solitario, la cui fatalità risiede nella direzione della fuga e non nella topografia. Da Cipro, passa in Egitto per sfuggire a un clima troppo opprimente, poi scende fino al Mar Rosso, fino a quel vulcano spento che è Aden. Più tardi, ad Harar, sognerà Zanzibar. Sempre verso il sole – «battistrada del giorno», lo chiama il poeta Vittorio Sereni – finché, a forza di andare avanti, non ritorna al punto di partenza. Ma il cerchio si chiuderà senza che egli abbia fatto il giro del mondo.
Nella costante tendenza alla fuga, al viaggio, si può vedere anche – come nota Etiemble – il disprezzo di Rimbaud per la gente "seduta", quel disprezzo che il poeta "grida" in Les assis (I seduti). «Dall'infanzia fino alla morte, Rimbaud fu un uomo in piedi», scrive Etiemble. «Un poeta, ma ella strada maestra; un mercante, ma un marciatore...».
Questa è la verità della fuga, del grande viaggio. Il resto, l'avventura, è aneddotica: la vita dannata ad Harar, la convivenza con un'abissina della quale non gli resterà che una malattia venerea, le carovane organizzate con avarizia, il traffico d'armi, i guadagni mediocri e sofferti... Una vita aspra e prosaica. Nella leggenda, si è voluto inserire anche il "mito" di Rimbaud negriero, ma è dimostrato che egli non ha mai praticato la tratta degli schiavi. Si può presumere che non lo trattenessero motivi moralistici, ma solo calcoli pratici. Quel commercio, che restava in mano agli indigeni, non era facilmente accessibile agli stranieri, che trovavano molto più comodo trafficare in armi, chincaglierie, pelli e caffè. A questo proposito, nel suo Le Mythe de Rimbaud, Etiemble cita alcune testimonianze piuttosto compromettenti per il poeta. In particolare quella di Enid Starkie, la quale, in Rimbaud en Abyssinie, afferma che egli fu implicato nella tratta degli schiavi e riporta anche un biglietto scritto da un certo Ilg, un ingegnere svizzero, a prova del fatto che Rimbaud aveva per lo meno considerato la possibilità di darsi a quel commercio. Ecco dunque il "mito" dell'avventuriero nella sua versione estrema: una versione troppo spinta, comunque, per poter sopravvivere. Approfondite indagini hanno infatti spento questa «luce diabolica» gettata su di lui, smentendo l'accusa.
In fondo, per Rimbaud «l'oro è la merce migliore», ed egli si affanna per accrescere il suo gruzzolo, per imbottire di denaro la sua cintura. Quella cintura piena di monete che, durante l'ultimo viaggio attraverso il deserto, su una lettiga portata da sedici negri, mortificherà le sue carni come un cilicio.


L'INDIFFERENTE

Pierre Gascar, che ha vissuto in Etiopia e ha ricalcato ogni passo di Rimbaud, si stupisce che il poeta sia stato così poco sensibile al fascino dell'esotico: «Non c'è uomo, per indifferente che possa essere, che abbia, come lui, una tale assenza di reazioni davanti alla strana atmosfera, per non dire della bellezza di questo paese. E per "strana atmosfera" intendo, banalmente, colore locale, aneddotica ».
Mai come in questo nostro secolo votato all'immagine, in cui tutti i mezzi di comunicazione consentono di frugare negli angoli più lontani e segreti del mondo, gli uomini sono stati in grado di cogliere ogni più piccola differenza nei paesaggi e nei popoli. Mai è stato tanto apprezzato l'esotismo. Oggi, mentre soprattutto nei paesi occidentali a capitalismo avanzato viene messa profondamente in crisi l'autenticità del nostro ambiente e del nostro modello di vita, esiste una tendenza a cercare altrove la verità quotidiana che l'uomo crede di aver perduto. Un giornalista si stabilisce in un' isola deserta col proprio cane e, via radio, si tiene in contatto col mondo comunicando le sue impressioni e le sue esperienze. Altri, che viaggiano per ragioni di studio e di ricerca, vanno a filmare il lavoro e la vita dei pastori di Sardegna o dell'Afghanistan per far sognare la gente delle grandi metropoli. Il turismo è diventato un'industria. Così, in questa logica superficiale, mentre si accetta che qualcuno possa correre in giro per il mondo da frettoloso osservatore, non si capisce come qualcuno possa stabilirsi in un luogo lontano e desolato soltanto per vivervi, senza la preoccupazione di raccontare.
Scriveva Albert Thibaudet di Rimbaud: «La sua opera creata per lui solo, senza darsi pensiero del pubblico, è forse la più sincera, la più chimicamente aliena da ogni prostituzione». E la stessa cosa possiamo dire della sua vita in Africa. Rimbaud ha dato un taglio così netto col disprezzato mondo della vecchia Europa che da nessuna delle sue lettere trasparirà mai la benché minima preoccupazione letteraria. Eppure, una sconvolgente umanità emana da quelle lettere aride e "senza stile" proprio perché è giunto il momento del silenzio e il poeta è diventato un esploratore, un mercante, un trafficante d'armi prematuramente invecchiato e ansioso di fare rapidamente fortuna. «Nelle lettere di Rimbaud esploratore», scrive Gianni Nicoletti, «la forma poetica è definitivamente assente, ma non è assente il suo contenuto, la visione tormentata e addolorata, lo slancio continuo, la reiterata delusione».
Mai, neppure una volta, il poeta prova il bisogno di "raccontare", quasi avesse intuito che la conoscenza di un paese esige altri sacrifici, al limite una sorta di suicidio, cioè l'idea, ben radicata, che da quel paese si potrebbe non far più ritorno. Rimbaud, forse, ha voluto farsi più «negro dei negri», confondersi con gli uomini, con le pietre di quella terra. Jean Paulhan esalta la nobiltà del suo "silenzio africano": forse, solo laggiù il poeta ha trovato una pace «megalitica», un rifugio sicuro dalle meschinità, dai mali che affliggono l'uomo. «Non potete immaginare questo luogo», scrive. «Non c'è un solo albero, neanche disseccato... Aden è un cratere di vulcano spento il cui fondo è riempito dalla sabbia del mare. Vi si vede e vi si tocca solo lava e sabbia; niente che possa dar vita a qualcosa di vegetale...». «L'Africa fu, al di là del deserto, la ricerca dell'uomo "proprio" coincidente coi miti, un luogo d'esilio che confermava la dannazione, ma anche la verità della sua poesia», ha affermato il poeta Salvatore Quasimodo.
Rimbaud, posto al confine del mondo e di se stesso, che cosa poteva aver bisogno di dire, ormai? Solo la scelta del silenzio gli pareva valida e, in fondo, come giustamente nota Hugo Friedrich, anche il desiderio di negare I' uomo attraverso il "deserto" dell'inorganico – pietre, sole, sabbia – cose incontaminate che non sottostanno alla storia, che non cadono sotto il potere corruttore della morte. Il suo silenzio, tuttavia, «assume l'aspetto di un' ultima provocazione», afferma Daniel Leuwers, un giovane critico contemporaneo. « Questo altero mutismo che continua a inquietare, affascinare, ci pone in uno stato di attesa, di interrogazione, che è l'essenza stessa della poesia».


METEORA

L'hanno chiamato "meteora" e anche "tempesta". Si è voluto trasformare Rimbaud in uno di quei fenomeni che gli uomini non dimenticano perché restano a lungo inesplicabili. Per salutare la nascita del poeta che creò la sua opera fra i sedici e i diciannove anni, non mancava che un prodigio. Ed ecco che Paterne Berrichon si affretta a fornirlo: «Quando l'infermiera incaricata di fasciarlo lo depose a terra, su un cuscino, per andare a prendere delle fasce, con enorme stupore lo si vide scendere dal suo cuscino e strisciare tutto sorridente verso la porta dell'appartamento che dava sul pianerottolo». Come dubitare, di fronte a questo racconto, che un bambino simile non avrebbe fatto irruzione nella letteratura francese? E, dopo una nascita tanto romanzesca, doveva essere certo un'"irruzione" fuori del comune. Ma, quando il genio esiste, conviene spogliarlo dei miti e delle favole che lo avvolgono. Molti interpreti moderni insistono nel dipingere Rimbaud come un "mago" della giovinezza, un fanciullo, un angelo che gira vaticinando per le strade di Parigi e di Londra, come una specie di mostro "anticulturale". Oggi, infatti, all'artista e al poeta non conviene aver studiato quelli che l'hanno preceduto; l'originalità si riconosce dall'impegno con cui rifiutano di accettare qualcosa dagli altri per paura di assomigliare a qualcuno. Questo culto dello spontaneismo si è assai diffuso, e coloro che vogliono vedere nel genio solo il miracolo hanno trasformato Rimbaud in un idolo. Lui stesso, del resto, aveva rovesciato alcuni idoli. George Izambard, parlando di una lettera scrittagli dal suo allievo e che a Rimbaud era servita da minuta per la famosa Lettera del Veggente, racconta: «Si dichiarava, il ragazzino, assolutamente disgustato da tutta la poesia esistente, passata e presente... Racine? Puah!... Victor Hugo?... Puah!... Omero? Omero!... E non ne parlava così per sentito dire... Li vituperava, ma li aveva letti, il ragazzaccio! Letti e riletti, gli antichi come i moderni, e più di un antico nel testo originale! Quanto al denaro per acquistarli, se lo procurava non già derubando sua madre, come è stato detto con cattiveria, ma facendo i compiti per i compagni ricchi e fannulloni... cosa che naturalmente gli ho perdonato!».
Quando, a diciotto anni, Rimbaud inventa un nuovo linguaggio nella Stagione all'Inferno, egli è assolutamente padrone del suo strumento. Ha passato giornate intere nella biblioteca di Charleville, ha percorso le rive della Mosa recitando versi alessandrini. Parigi l'ha disgustato, durante il suo secondo viaggio, perché le librerie non avevano le vetrine piene di libri di poesia. E. infine, nella sua avventura con Verlaine, troppo spesso si considera solo l'aspetto della passione, dimenticando che si trattava anche di un sodalizio poetico. Gli strumenti dei poeti sono soltanto la parola, una penna e un po' di carta; per mesi e mesi, Verlaine e Rimbaud – come dei tecnici, degli artigiani innamorati della bellezza dell'opera – hanno pesato parole, cercato ritmi, mentre ciascuno di loro forgiava il proprio stile in quell'assiduo esercizio. Miseria e grandezza della creazione poetica. Non è un caso se, in un libretto intitolato Les Impostures de la poesie, Roger Caillois scrive: «Quanto ai poeti, come i guaritori, gli indovini e tutti coloro che esercitano un'arte un po' misteriosa e che forse li stupisce, essi ne esagerano il mistero e fanno credere, e credono che la loro abilità è un dono degli dei. Dicono che è un alito soprannaturale ad ispirarli e che hanno appreso tutto direttamente dalla natura o dal loro cuore. Ma, in realtà, sono i loro predecessori ad istruirli; lo si può constatare chiaramente. I letterati sono gente di mestiere e, a conferma di quanto dico, prendo proprio questo Rimbaud che essi considerano imprudentemente come il più miracoloso dei poeti e che provò invece tutti gli stili, prima di trovare il proprio». Rimbaud, effettivamente, ha fatto il suo tirocinio. Dal dattilo e dallo spondaico scanditi in collegio, è passato ben presto alle forme poetiche più moderne per poi spezzare il verso e dare la sua definizione al poema in prosa. Ma, anche qui, egli rientra nell'evoluzione di un genere letterario. L'espressione "poema in prosa" era infatti apparsa per la prima volta nel 1791, scritta da un giornalista. Nel 1830, Aloysius Bertrand, in una suite di testi brevi, Gaspard de la nuit, tentò di evocare l'atmosfera del Medioevo e del Rinascimento alla maniera dei pittori fiamminghi. In seguito, Baudelaire riscatterà dall'oblio quest'opera passata inosservata e se ne dichiarerà l'umile imitatore: «Mi è venuta l'idea di tentare qualcosa di analogo e di applicare alla descrizione della vita moderna, o piuttosto di una vita moderna e più astratta, quel procedimento così stranamente pittoresco che egli aveva adottato per rappresentare la vita antica». Dopo Baudelaire, Arthur Rimbaud, che non ignora il suo grande predecessore, infila gli stivali delle sette leghe per spaziare nel grande campo della poesia. Egli è, al tempo stesso, il mago e Pollicino che non si smarrisce.  Noi possediamo, oggi, i "sassolini" che stanno a segnare il suo itinerario: una parte delle minute della Stagione all'inferno e alcune testimonianze che dimostrano quale scrupoloso artigiano sapeva essere. Quando collaborava all'Album zutique, a Parigi, Rimbaud aveva affidato a Jean Richepin un quaderno, che questi perse, «sul quale aveva annotato delle parole insolite, un'esplosione di rime, degli schemi di idee. C'erano, in quel quaderno, i temi meravigliosi di molti poemi in prosa rimasti inediti e che non si ritroveranno mai». Comunque, la ricerca delle fonti e l'esame minuzioso degli appunti non potranno mai spiegare completamente la bellezza e lo splendore straordinario dell'opera di Rimbaud. E non ci  riusciranno certo quelle ricerche universitarie che, basandosi sul metodo  statistico e su formule pseudo-scientifiche, stabiliscono che le Illuminazioni contengono il 63% di sostantivi, il 20% di aggettivi, il 15% di verbi e il 2% di avverbi! Rimbaud non può essere ridotto all'immagine di "meteora" soprattutto se ci si attiene alla definizione che il dizionario Littré da di questa parola: «meteora, in senso figurativo: persona che ha fama brillante, ma passeggera, e cosa che fa un'impressione viva, ma poco durevole». Il cielo della poesia non era deserto quando lui apparve. La costellazione di Verlaine consentirà ai giovani che avrebbero nobilitato il principio del nuovo secolo di navigare più sicuri nelle acque del linguaggio. Mallarmé rinnovava con discrezione il lirismo francese e, con pazienza di alchimista, si accaniva a «dare un senso più puro alle parole della tribù». Nel 1862, quando Rimbaud aveva solo otto anni, Mallarmé profetizzava inconsapevolmente: «È difficile distinguere sotto le chio¬me arruffate di quale scolaro albeggia la stella sibillina». Altri artisti inventavano forme nuove e cominciavano a non vedere più il mondo secondo le rigorose leggi della fisica: Van Gogh, Gauguin, Wagner e Debussy, lottavano contro demoni sconosciuti. La sensibilità stessa andava mutando. In ogni parte d'Europa, c'erano uomini che avvertivano un sentimento nuovo, quello del tragico. Mentre Rimbaud tentava di vivere in Etiopia, Dostoevskij scriveva I fratelli Karamazov, Nietzsche Così parlò Zarathustra e Knut Hamsun La Fame. Quel mondo, che si era tentato di scoprire nei secoli precedenti e che si credeva finalmente di conoscere, rendeva invece insidiosamente effimere le antiche certezze. Dio stava per morire e lasciare il posto a nuove religioni, alle inesorabili mitologie dell'inconscio. Il diciannovesimo secolo agonizzava con grandezza. Restano ancora alcune immagini di Rimbaud che il professor Etiemble ha studiato e smitizzato nel suo famoso libro Le Mythe de Rimbaud: le immagini della canaglia, del mistico, del patriota, del profeta, del perverso. Ci sono perfino i miti "politici": Rimbaud fascista, Rimbaud bolscevico, miti che Etiemble passa severamente al vaglio. Rimbaud è, in se stesso, un'opera favolosa la cui messinscena continua ad arricchirsi in occasione di anniversari, di manoscritti ritrovati, di studi. La critica rimbodiana è assurta al livello di un genere letterario raffinato, che da lustro a chi vi si cimenta. Il "fanciullo selvaggio" di Charleville ha suscitato passioni leggere o profonde; per causa sua, dei ragazzi hanno confuso crisi di crescita e di poesia, credendo che la perversione o l'uso della droga possano sostituire il genio. Per causa sua, grandi poeti si sono rivelati a se stessi. Ad altri, infine, egli «donò il gusto dell'assoluto, la speranza di illuminazioni, e senza dubbio anche certi aggettivi metafisici e sensuali». Come trovare «il luogo e la formula» di quest'opera irriducibile a ogni tentativo di chiarificazione sistematica? Bisogna cercare Rimbaud in Rimbaud, leggerlo con semplicità, non scoraggiarsi davanti all'oscurità e al mistero che l'artista non ha edificato come una barriera di difesa. La sua avventura spirituale e poetica è stata tanto ardita che egli non poteva che esclamare: «lo solo ho la chiave di questa parata selvaggia». Ed è proprio una «parata selvaggia» nella quale sfilano tutti i Rimbaud – il credente e l'ateo, il sottomesso e il ribelle, l'avventuriero e il borghese, il primo della classe e l'iconoclasta – ciascuno dei quali è vero nell'istante in cui si manifesta. Essere inesauribile che pone degli enigmi ai posteri e costringe Jean Cocteau a questa confessione di umiltà: «Noi tutti viviamo sulla favolosa eredità di alcuni artisti morti in miseria. Voglia il destino che un giovane poeta sconosciuto contraddica i figli di papa che noi siamo, e scopra il segreto di un nuovo martirio».

Arthur Rimbaud in un disegno di  Paul Verlaine (1872)
Arthur Rimbaud in un disegno di Paul Verlaine (1872)


Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.
Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.


Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
R. alla prima comunione (1866)
R. alla prima comunione (1866)
Rimbaud in Africa (1883)
Rimbaud in Africa (1883)